La rotta...

La cosa più importante per chi non ha potere è avere almeno un sogno
Da "La terrazza proibita" di Fatima Mernissi

martedì 25 ottobre 2016

“In Calabria la mia vita è cambiata", con Marisa Manzini

Presentazione di "Onore e Dignitudine" a Vibo 

“In Calabria la mia vita è cambiata. Rimasi affascinata da una terra ricca di mille contraddizioni. Una terra che mescola il clima caldo e le onde frizzanti del Mediterraneo con l’asprezza e la fierezza dei monti. Ma l’ampiezza degli spazi naturali, la superbia di una natura libera e prorompente, deve fare i conti con presenze umane violente e sprezzanti, che impongono spazi chiusi, ritagliati, sorvegliati, in cui gli avvenimenti sono registrati e insistentemente controllati. Dove le malignità degli uomini non risparmiano neppure i bambini. 
Deve fare i conti con un potere mafioso esercitato senza interruzione e senza scampo.”


Queste parole sono state scritte da Marisa Manzini nella prefazione di “onore e dignitudine” ricerca condotta da Ludovica Ioppolo, Norma Ferrara e me negli ultimi anni. Non abbiamo avuto dubbi su chi fosse la persona giusta per introdurre il senso del nostro libro, e non ci siamo sbagliate. Solo una donna come lei poteva trovare queste parole per descrivere la Calabria, solo una persona con lo sguardo in cerca di giustizia poteva parlarci così di potere della 'ndrangheta. 
Magistrata, ora Procuratrice Aggiunta della Procura della Repubblica di Cosenza, non ama parlare di quello che le sta accadendo. Un aumento della tutela, “messo in conto” come dice lei per chi sceglie di fare il magistrato. Ma uno sguardo più attento non può non capire che si sta giocando anche un’altra partita in queste ore, in un campo che è quello del potere che si traduce in dinamiche di mancato riconoscimento nelle relazioni istituzionale- da magistrata- e nelle relazioni di genere- da donna. 
Le parole pronunciate durante l’udienza del processo “Black money” contro Marisa Manzini suonano come una minaccia diretta in un contesto di potere tutto al maschile. Per cui alla manifesta intenzione di ribadire la supremazia sulla vita delle persone, si associa quel latente messaggio che consiste nel ribadire che essere donna significa non avere il diritto di parola, e quindi di esistere.
Ancor di più, se chi parla era il marito di una donna suicidata, Tita Buccafusca, vittima del potere della ‘ndrangheta in quel confine incerto tra la vita e la ndrangheta, che si era rivolta proprio a Marisa Manzini nella sua scelta- dolorosa, tormentata e purtroppo non definitiva- di libertà. 
Tutto questo, agito in un contesto tipicamente maschile, quello dei tribunali: luoghi declinati al maschile, in cui si muovono relazioni trasversalmente attraversate dal potere. Perché la ndrangheta è uno spazio di potere maschile, che esclude le donne, che esistono solo perché legittimate da una presenza e da un potere maschile. La 'ndrangheta traduce il suo potere totale dai territori ai corpi, ai desideri e agli affetti, sui corpi delle donne come conquista coloniale, e la cronaca di oggi continua a dimostralo duramente. 
Il silenzio dei giorni successivi corre il rischio di legittimare e rafforzare questo insieme di stereotipi, di far passare in secondo piano quanto accaduto. 
Perché se il pudore di Marisa Manzini lascia una grande lezione di dignità e serietà, il silenzio della società civile spaventa. Non si può correre il rischio di sminuire quanto accaduto, non è solo “una questione di donne”, come si è soliti tirar fuori in certi casi. 
Subire una minaccia, intimidazione significa fare i conti con il proprio essere ed esserci, e lasciare sole chi ne è vittima è un rischio e una responsabilità gravissima. 
Per la dottoressa Manzini non c’è stata nessuna campagna sui social network, poche manifeste solidarietà, che seppur a niente servono, inducono alla riflessione e alla presa di responsabilità. Forse perché in pochi conosciamo la storia e il contesto in cui ciò è avvenuto, forse perché a poco a poco e senza fuochi d’artificio, questa procuratrice sta smuovendo un po’ di equilibri. Forse per indifferenza o forse perché è donna, e allora è più facile fare una battuta o sminuire il suo operato. 
Io penso che donne come Marisa Manzini possano solo fare del bene e fare bene alla nostra terra. Perché nella dignità silenziosa del lavoro quotidiano, nell’accoglienza di uno sguardo, nella bellezza del confronto, nella “cura del lei” nelle relazioni, dimostra a tutte e tutti che le parole di un uomo di ‘ndrangheta non valgono più nulla, perché sono dette da chi ha sempre meno consenso, e quindi, sempre meno potere. 

Per me la solidarietà verso Marisa Manzini non è un atto dovuto, né una parola al vento: io sono solidale nei termini più belli che questo concetto ci permette. Perché sento di camminare insieme, di essere dalla stessa parte, di essere insieme alle tante donne in Calabria che lottano contro questo potere. 


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